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13 November 2025

Fragments from a Woman's Life, Part 1

James Rosenquist, Flowers and Females, 1984

Fragments from a Woman's Life is an original short story by Bora Mici written in Italian language. It follows the model of The Man Who Wore the News, which was published in July 2025, and uses unknown vocabulary words gleaned from various sources, including didactical texts, podcasts in Italian and Italian-language literature from authors such as Jhumpa Lahiri and Italo Calvino. This particular story is still in the making and will be published in installments as it evolves in the guise of a 19th-century roman feuilleton. However it will be a short story and not a novel. Just like for The Man Who Wore the News, this story centering on a woman's daily life and memories, is woven around a list of vocabulary words that were either new to me or that I wanted to record for the sake of better remembering them, and I followed the list in order as I had created it spontaneously, without any particular attention to themes or an underlying logic. In that sense this story is dependent on that invisible order, which gives it an unexpected dynamic and forces me to creatively integrate words I might not have otherwise chosen into the fabric of the narrative. This first installment is subject to minor modifications in the event that the subsequent one necessitates it. But I will notify you if I make any changes. As always if you are a native Italian speaker reading this, you may pick up a small mistake here and there because I have not had it edited, and I am still learning Italian. However, you might be pleasantly surprised by the complexity of the story.          

Fragments from a Woman's Life, Part 1, by Bora Mici

Si aggiustò i capelli grinzando un po’ le labbra mentre si guardava nello specchio. Stava appena albeggiando. Doveva mandare un email con il suo lavoro svolto la sera prima in allegato. Non se ne aspettava di ricevere una risposta prima del indomani. Il suo datore di lavoro le aveva comunicato che l’assegno era già stato imbucato da una settimana. Rideva sotto i baffi mentre pensava al suo sforzo frenetico ma finto per non consegnare il dossier in ritardo. In realtà avrebbe voluto spassarsela senza prendere il compito troppo sul serio. Si era veramente dimenata benché sapesse che tutto si sarebbe stato arrangiato ed avrebbe fatto un lavoro più che sufficiente. Adesso si sentiva benino mentre sognava un caffè ristretto. La bontà degli esseri umani le appariva un’evidenza schiacciante come gli uccellini che cantano sui rami senza averne coscienza. Si recò alla buca delle lettere ancora una volta per verificare che non fosse arrivato e rientrò in casa. Decise che quel giorno avrebbe messo entrambi le calze ed i calzini, ma niente calzoni, solo una gonna di lana per celebrare il freddo invernale insediatosi di recente nell’aria secca. La camicetta poi l’avrebbe messa soltanto per andare in ufficio perché altrimenti si sarebbe bagnata di sudore mentre passeggiava sotto i raggi abbaglianti del sole mattutino.

Avrebbe fatto il suo solito tragitto da una casella postale all’altra, da una cassetta delle lettere davanti a una casa che somigliava proprio alla prossima, tutte allineate sulla stessa riga scorrendo parallelamente al vicolo dove abitava. Avrebbe salutato il cassiere che stava per recarsi al supermercato, immaginandolo bonario e celibe, che inscatolava le ciliegie appena arrivate da chissà che paese lontano. Si infilò la cinghia di cuoio nero con la fibbia di metallo giallastro e gettò uno sguardo attraverso la finestra chiusa allo riverberare della luce bianca e liquida sul cofano della sua macchina rossa parcheggiata nel camino affiancando la casa. Siccome aveva delle inclinazioni ambientaliste, lo aveva fatto pavimentare di mattoni incastrati nel suolo a capofitto e spaziati tra di loro. In quelle crepe cresceva l’erba, piccola e dritta, che si era ormai ingiallita dal freddo.

Nel silenzio si rammentò il colloquio con il giornalista che le aveva chiesto come era stato di lavorare in negozio in tanto che commessa quando era giovane. Ricordava soltanto il modulo banale che doveva compilare senza nemmeno capire a cosa servisse, visto che una non chiede di diventare commessa se ha esperienze antecedenti di lavoro. Poi, d’improvviso, il suo pensiero rigalleggiò nel presente rivolgendosi ai contorni che aveva promesso di comprare per la festa di compleanno della sua migliore amica.

Due notti prima avevano fatto baldoria in una discoteca e lei le aveva lasciato sul cruscotto un foglio con l’indirizzo della festa, che purtroppo era stato bagnato nel diluvio notturno, mentre lei lo portava con sé nel corto tragitto dalla macchina in casa. Il domattina l’aveva trovato illeggibile.

Presto si sarebbe recata dalla fornaia e dalla fruttivendola ma prima doveva occuparsi della sua portiera guastata. Quando sarebbe arrivato l’assegno avrebbe impiegato un’oretta per incassarlo in banca. Non si era nemmeno resa conto di aver varcato la soglia della porta e di ritrovarsi nel giardino davanti a casa sua. Improvvisamente frugò nella buca delle lettere e vide che aveva dimenticato di recuperare una cartaccia coperta di inserzioni promettendo di fornire i prezzi più vantaggiosi per una interurbana. Doveva essere uno scherzo o una truffa! Chi ne avrebbe tratto un’utilità da un’offerta simile nell’epoca dei cellulari? In un lampo, sgualcì il foglio, ne fece una pallina, e con un sorriso lieto, pensò ad imbucarla nella cassetta del vicino così come era appallottolata. Invece si immagino che avesse davanti a sé un macellaio fiero di sé ed un monaco vegetariano e che ne uno ne l’altro avrebbe molto gradito questo suo modo di comportarsi come un monello maleducato, e che neppure stando al largo per fare loro strada, non gli avrebbe convinti che fosse un’adulta nubile che si sarebbe costituita una nuora degna di ogni onore. Le venne in mente che occorreva chiamare il padrone di casa per avvertirlo che il pagamento dell'affitto lo avrebbe consegnato quando avrebbe ricevuto il suo stipendio, e di sottecchi gettò uno sguardo alla parabrezza della macchina che era sporca, e pensò anche che doveva portarla a lavare tutta perché anche il paraurti ed il parafango erano coperti di chiazze di acqua infangata.

Aveva voglia di una pera che poi l’avrebbe anche aiutata a sciogliersi le budella, perciò rientrò in casa dal portone che era rimasto aperto, prese la sua pillola mattutina e si portò indietro quella pallottola di carta straccia e la buttò via insieme al prezzemolo marcio che trovò nel frigorifero. Qualora avesse avuto bisogno di altro ne avrebbe potuto comprare al supermercato a due passi da lì. Quantunque non le paresse necessario al momento, forse avrebbe fatto meglio a procurarselo subito per evitare ogni imprevisto. Dunque si recò a piedi al negozio del rione, sgualcì la ricevuta come aveva fatto con il foglio di inserzioni, e come un regista da film si vide salpare dietro l’orizzonte in una barca a vela sebbene le paresse seccante di essere stata interrotta nella sua fantasia dal pensiero del serbatoio quasi vuoto e della sottana di seta che doveva portare in biancheria e dopodiché averla aggiustata alla sua statura da grissino. Aprì la portiera della macchina rossa e mise il tergicristallo in moto per pulire un po’ la parabrezza. Tutt’a un tratto cominciò a tirare vento e si sentì un rintocco lontano di campana che segnalava le otto di mattina. Nel bagliore della luce del sole i suoi capelli sembravano che tornassero biondi come li aveva avuti da bambina. Sentì un tuono e si disse che da qualche parte c’era stata un’esplosione e poi si ricordò della vaglia che doveva mandare in raccomandata da subito.

Per ammazzare il tempo mentre guidava la sua macchina infangata nella direzione della posta si rammentava le vacanze presso il lago di Como dell’anno prima. Ci era andata con la sua amica, quella della festa, e dapprima erano scese alla sponda per bagnarsi i piedi e tastare l’acqua. Poi immergendosi fino alla vita, avevano accennato alcune bracciate, facendo finta di nuotare. Tuttavia, siccome non erano esperte gli sembrava di non avanzare del tutto, bensì di muoversi in tondo mentre le sagome dei pesci giravano intorno alla parte sommersa dei loro corpi bianchi come il gesso che oscilla nella luce del sole. La svolta si compì quando riuscirono a galleggiare ma al contempo sentivano un lieve disagio cagionatosi dallo sguardo svergognato di due bambini che non smettevano di fissarle. Finsero il distacco, ma questa menzogna destò un desiderio inappagato in loro di andare incontro ai bambini e di incalzarli di urli e di rimproveri duri. Tuttavia si accontentarono di percepire la luce nei loro occhi maliziosi come una forza naturale ignota che si sarebbe smussata con il calo del sole all’imbrunire. Non erano del tutto felici e si dimenavano nell’acqua a malapena addestrate, segnalando appunti mentali su come fargliela pagare a quei mocciosi scarni mentre stentavano tuttora a strapparsi dalla superficie ormai torbida che gli infastidiva. La loro riserva di pazienza era già strapiena e l’estro con cui si erano avviate nel lago dapprima era sprofondato sottacqua come una cartella pesante fradicia di dati ingombranti. Adesso i bambini si bagnavano a loro volta, i movimenti delle loro vite smunte lasciavano intravedere i passi premurosi e scorrevoli che compivano sulle sabbie moventi del fondo. Diversamente dalle amiche non sembravano affatto impacciati né avviliti dallo stento. Invece sorridevano quasi mansueti mentre lasciavano alle spalle il riparo della sponda. Si sprigionava un’energia bonaria e innocente dalle loro facce abbronzate e dalle loro membra esili e rilassate.

Mentre guidava passò accanto ad una panca di legno marcio sopra la quale avvertì uno scaffale di ottone brillante e sedutosi accanto un uomo spossato che la guardava in modo strambo come se le stesse chiedendo di fermarsi. Tutt'a un tratto lo vide sviare lo sguardo e porlo altrove, e decise che d’ora in poi non si sarebbe lasciata distrarre da persone che non conosceva neppure. I bambini del lago gli avevano davvero giocato un brutto scherzo quel giorno. Però la perizia nel barattare con se stessa rendeva il proposito un’impresa difficile da portare in porto. Non doveva darsela per scontata di poter far spargere così facilmente la foschia leggera ma sconfinata che si innalzava intorno a lei e dalla quale risaltava di nuovo il viso dello sconosciuto che la incalzava di azzardarsi a parlargli. Non si poteva permettersi di vagheggiare un tale incontro mentre guidava per spedire un’azione precisa che aveva una scadenza imminente. Invece la brama vaporosa traboccava dai confini della sua attenzione, rivolta alla strada, e che la portava sempre in avanti inesorabilmente per andare ad effettuare la spedizione del denaro. La foschia si radunava e si disfaceva a seconda delle sue emozioni che guizzavano, reggevano e poi si imbattevano abbattuti nella corsa selvatica della macchina verso l’ufficio postale. O stava andando in banca?

Si ricordò di non aver portato fuori la differenziata mentre cercava di attingere nei suoi ricordi più sepolti la ragione per cui quell'uomo sulla panca non le era sembrato una semplice inezia dell’azzardo. Era uno sforzo impegnativo e si rese conto che aveva schiacciato il pulsante sbagliato. Avrebbe dovuto acceso l’altro indicatore per segnalare che stava svoltando. Così, mentre progrediva a tentoni nella memoria annebbiata da una confusione travolgente, decise di schiarirsi le idee, tornare indietro e crivellare lo sconosciuto di domande inopportune. Aveva lavorato sodo il giorno prima, ed ulteriormente era di rado che le arrivasse di arrendersi a un impulso meno che sbrigativo. Sotto la sua corazza di impiegata infallibile c’era qualcosa di grezzo ed al contempo inafferrabile, come un graffio. Lei avrebbe dovuto spaccare in due il nodo per riuscire a svelarne il significato, dipanando così il filo che indicava la via d’uscita. Mentre rimuginava tutti questi pensieri storditi percepì un intralcio insuperabile in quanto scrittrice insofferente della mitezza con cui reagiva in realtà, malgrado la pioggia che le scrosciasse dentro.

02 July 2025

The Man Who Wore the News

Barbara Kruger, We don't need another hero, 1987

This is Bora Mici's original text, written in Italian, which may or may not contain a few minor mistakes, and which will be difficult to translate with an AI translator. It presents a parody of a person who does not exist in real life by employing vocabulary learned while listening to the news in Italian and to Italian-language podcasts. As a result, it might give you the impression that the character the story describes is modeled on real-life characters, since he embodies the spirit of the times, but I assure you he does not exist. The text began as a mere vocabulary-learning exercise and transformed into an endeavor of literary ambition. I had tried this kind of exercise once before using French vocabulary on a French test at the University of Maryland, and I found that it gave me a great amount of playful liberty with words. For this particular piece of writing, I just used the words in the order they appeared in my notes, which also represents a certain kind of underlying logical structure, since the sources I drew the unknown vocabulary from mostly discussed current events from around the world.  

Giovanni è una persona smaccatamente attendista. Il suo attendismo è inviso ai suoi amici che non vogliono più fare da sponda per lui. Hanno cercato di ricompattarsi come gruppo, ma in fin dei conti, Giovanni pensa soltanto a se stesso. Una volta ha fatto costruire uno striscione sul quale era scritto “Giovanni prima di tutti gli altri”, proprio come quei leader populisti che vogliono mettere in avanti la priorità del proprio partito e di conseguenza del proprio paese. Gli amici di Giovanni hanno deciso di fare un piccolo smistamento e provare di toglierlo dal gruppo. Hanno deciso di andare al mare con lui, di metterlo su un gommone col maglioncino giallo che gli aveva confezionato la nonna, molto amata da lui, di dargli alcune zucchine grigliate per poter nutrirsi durante lo smarrimento meritato, ma lui ha capito subito il tranello in cui lo cacciavano ed ha intimato che non fosse coerente con la loro amicizia disinteressata e che non valeva. E poi sarebbe stata una soluzione contingente. Invece di andare al mare, Giovanni ha intrapreso di leggere un testo ostico, ad alta voce, e farne una carrellata per gli amici e mandarli a quel paese perché potessero scovare dalla sabbia della sua coscienza un tesoro facoltoso di cui lui era già prettamente assuefatto. E doveroso menzionare che si rifaceva ai suoi maestri più colti di scienze umane, compresa la psicologia e la letteratura. I suoi amici avevano pensato di proporgli così un capestro da cui non poteva più slegarsi, ma lui si dimostrò propositivo, al netto, dobbiamo aggiungere, di voler sempre ribaltare le carte in tavola. Non si sapeva più dove lo avesse celato quel gruzzolo di sapienza che aveva acquisito col tempo adagio adagio, e forse sarebbe stato il caso di fare appello ad un umarell per dare le istruzioni che occorrevano ai ragazzi. Per forza, si trovavano costretti ad edificare il loro baluardo di avanguardia contro la sapienza faticosa e preponderante di Giovanni. Di recente, lo ritenevano piuttosto istrionico e non del tutto canonico, anche se Giovanni gli esortava di appuntare senza barare tutto ciò che cercasse di trasmettere a loro. Perorava che, dopo tutto, la resilienza vuol dire piegarsi senza spezzarsi, e Giovanni se ne intendeva di queste cose. Puntava la distensione e la riscossa del gruppetto, anche se era chiaro che allargava le maglie della giustizia a suo compiacimento. Era un furbo che faceva finta di andare alla volta dei suoi addetti, ma forse non se ne accorgeva nemmeno della sua duplicità. Al netto del suo atteggiamento protagonista, li considerava i suoi soci più cari e voleva plasmare la loro amicizia, adibirla, senza però millantare, mi raccomando, in un ateneo. Auspicava la loro adesione, e d’acchito, non sembrava troppo esigente. Purtroppo agiva sempre a scapito degli altri e intasava le loro vie d'uscita. Li faceva intrappolare nel suo gorgo ai prezzi stracciati, che campeggiavano in bella mostra su un affiche con una dicitura sgradevole annunciando la degenza, semmai non gli si fosse dato retta. Brandendo il cartellone dal balcone che dava su un piccolo spiazzo fuori casa sua, invocava i suoi discepoli, cercando come sempre di accreditarsi con loro, intercalando nei suoi discorsi gustosi ed espansivi questioni di atteggiamenti sindacabili da parte dei suoi rivali. Siamo lì, diceva, tutto fiero di sé, dobbiamo accendere un faro su queste velleità raffazzonate di quel tizio che sempre ordisce ai danni della buona giustizia, di cui noi stessi abbiamo fatto le lodi, pensando di aver imbroccato l’argomento anche se tutti sospettavano che non fosse altro che una macchietta bislacca e se la ridevano sotto i baffi. Aveva un’ossessione morbosa col delitto dell’appropriazione indebita, cercava sempre aggravanti, ma siccome non voleva essere percepito nemmeno come un foriero di verità indiscutibili, era chiaro o no, che si trattasse di un fifone che incollava la propria immagine di sé, come uomo da bene, sulla realtà poco gradevole. Così, si era ritagliato un posticino sicuro in mezzo al caos quotidiano della sua città e badava sempre ad appropriarsi una quota di mercato che andava sempre incrementando, accolta in sottintese scoppiettate di riso. Seppure la sua casa si trovasse vicino alla Borsa e potesse essere informato da subito di potenziali flessioni, lasciava intendere di collocarsi dall’altra parte della barricata per far sì che fosse caldeggiato da quelli che curiosavano nei suoi affari. Spesso con i suoi soci intavolava discorsi a far tremare i polsi, scattenandosi delirante come se fosse in procinto di vedersi costretto a firmare un accordo svantaggioso. Che stramboide, diceva la gente. Altri ammiravano il suo impeto dilagante e dicevano sottovoce, ma che figo, ammazza! La calca si faceva sempre più fitta quando saliva in cattedra anche se non gli riusciva mai di fare altro che scalfire la superficie dell’argomento prescelto, conseguendo così di trovarsi conciato male davanti alla ciurma, che comunque si beveva le sue parole come vino sfuso. Si era messo in testa di debellare la reputazione dei suoi nemici, inalberandosi e squadernandosi, spalancando le braccia per far intravedere le sue ascelle sfrangiate e sbiadite dal tanto sudore che ci metteva per confutare le menzogne sulla sua persona, tra cui si potevano annoverare quelle sul afflato fatiscente dei rivali. Perorava spesso della sua impresa, che beninteso, non mirasse il tornaconto, bensì si impegnasse a non lasciare le cose andare in tilt, che si desse per spacciato lo sforzo quotidiano della gente per edificare quel tempio alla sapienza. Dal suo leggio che fungeva da posto investito dell’autorità suprema, quasi quasi si potrebbe dire che avesse raggiunto il prestigio del papa quando professava la carità e l’umiltà dal balcone della San Pietro, rivolgendosi alle masse nel suo discorso famosissimo dell’urbi et orbi. Insomma, Giovanni non cercava di tirare le somme di quanto fossero divenuti colti i suoi coetanei, bensì raccomandava loro un cambio di marcia per ottenere quella margine risicata in più, che avrebbe permesso loro di bollarsi gente di cultura. A questo proposito faceva aleggiare una nube florida di speranza che somigliava, se esaminata da vicino, ad una spocchiosa avvampata che sbaciucchiava in aria, che col passare del tempo, sarebbe poi divenuta una rimbambita bitorzoluta che nessuno avrebbe più adorato, ma che tuttora sbottava di scatto i suoi rincari e sbuffava di non essere riconosciuta a pieno titolo come la guida suprema per antonomasia. Non si sapeva a chi dovesse questa sua convinzione, quale mutuato nascondesse nel cassone della sua macchina con una marcia in più. Tuttavia era calzante la sua passione senza fronzoli, come lui credesse, che riusciva comunque a gasare la folla. Però come ve lo potete immaginare, si diceva intorno, che fosse un bacchettone, che avesse un pallino per la mistificazione, che esercitava tramite grossolani strafalcioni sui propri pargoli, costringendoli a farsi il mazzo. Siccome nessuno voleva che si riprendesse dallo smacco cagionato dalla loro andatura a rilento, si stipulava il conclamato divieto di impicciarsi platealmente nei affari del capo, che tra l’atro, si deve riconoscere una volta per tutto, portava i vestiti nuovi del re. In ultima istanza siamo costretti anche a dargli retta, tirando un grandissimo fiatone di sollievo, perché il suo indole non era del tutto congeniale al coinvolgimento in malefatta. Si vedeva chiaramente che aveva soltanto bisogno di convincersi che poteva portare a termine le sue illusioni, frutto di un farneticare sfizioso, per poi defilarsi con un’umiltà sentitissima e dare spago allo stuolo ferale che gli pareva dignitoso e bonario, quando invece si trattava di arraffoni disillusi, che ormai si potevano perfino vantarsi di essere colti come lui.

21 June 2024

Reductio Ad Absurdum: Reading Freud on the Subway

The Subway by George Tooker, 1950

This is a little story, or at least the beginning of it, that I wrote for a local writer's competition. It did not get selected so I am publishing it here because I think it makes points worth considering.

Reading Freud on the Subway

In “Civilization and Its Discontents,” Freud writes that he finds no error in the Communist economic plan, but surmises that it would not resolve one fundamental problem: the need to express aggression and direct it inward or outward. An economic system that prioritizes the equal distribution of resources might work, but human nature would still creep in and create inequities elsewhere.

Imagine a subway car with a limited number of car seats. If everything is planned accordingly, there are only as many customers as there are empty seats available at any given time. The flow of passengers into the car is subject to careful monitoring and regulation and unfolds without a hitch; there is no competition in sight because the frequency of the trains adapts to the fluctuating demand. But the train ride is long, longer for some than for others. How will they occupy themselves? Sound planning might alleviate one set of spatial constraints, but the laws of physics dictate that a train travels at an average speed over a given distance, and for lack of inventions to come, the present imposes itself in all its less than predictable vicissitudes.  

There’s a zealous knitter next to an avid reader. Although he tries his best to minimize the elbow room required to stitch his rows, sometimes the end of his thick wooden needle brushes against the flashy neon green and pink book cover on the edge of his peripheral vision. The reader, who is wearing headphones to drown out the chatter of two gregarious friends across the aisle, remains unperturbed. She shifts in her seat, crosses one leg over the other, but does not make a move. The story is engrossing after all, and a slight nudge from the left is a small price to pay for the pleasure of a subway car that is not cramped. The train pulls into a station. The demure couple sitting to her right gets off. Taking its place, in saunters an eccentric pair bundled up against the cold in what seems to be glossy astronaut suits, carrying bunches of flowers with flanking gigantic palm leaves.

Now our reader feels squished. What’s more, the flowers are casting an obstructive shadow over the pages of her book. Where should she turn? Should she reprimand the knitter for occasionally jolting her book or ask the bulky new arrivals to kindly put down their flowers into the aisle? She considers turning to the flower people. As she is about to make her move and takes off her headphones, one of them, the one immediately to her right, makes eye contact, then glances at his bouquet and shakes his head as if saying, “Not going to happen, sister. The flowers are staying put. Otherwise, they’ll roll up and down the aisle as the subway screeches to a stop and starts up again.” She reconsiders and turns to the left.

At this point, the conversation between the gregarious friends is really grating on her. She grabs the end of the needle. Its jaunty movement abruptly comes to a stop. She looks the knitter in the eye as if saying enough is enough — both say they’re sorry.

How can we explain this reaction? Aggression is how the superego, our social monitoring mechanism, copes with a recalcitrant, desirous ego, which in turn negotiates with our basest instincts to present a unified and socially acceptable image to our most immediate interlocutors. Gestures, thoughts, simple eye contact become aggressive acts that lead to painful remorse in conscientious individuals. But what happens between our reader and our knitter? Do they compromise and turn their backs to each other so as to no longer venture into each other's embattled airspace, so to speak, and thus expose themselves to new vagaries of idiosyncratic train behaviors? Do they cease and desist?

Or does one emerge victorious through subtle guilt-tripping or by occupying the moral high ground? Or does it depend on what book the reader is reading and the lessons it can impart in the serendipitous event that she reflect upon them, and perhaps shares them with her nimble fingered neighbor, who in turn offers to knit her a pair of gloves to keep her hands warm while she is reading other works of literature that provide insight into human nature and encourage conversations, thus defusing stressful factors and creating bonds?