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Barbara Kruger, We don't need another hero, 1987 |
This is Bora Mici's original text, written in Italian, which may or may not contain a few minor mistakes, and which will be difficult to translate with an AI translator. It presents a parody of a person who does not exist in real life by employing vocabulary learned while listening to the news in Italian and to Italian-language podcasts. As a result, it might give you the impression that the character the story describes is modeled on real-life characters, since he embodies the spirit of the times, but I assure you he does not exist. The text began as a mere vocabulary-learning exercise and transformed into an endeavor of literary ambition. I had tried this kind of exercise once before using French vocabulary on a French test at the University of Maryland, and I found that it gave me a great amount of playful liberty with words. For this particular piece of writing, I just used the words in the order they appeared in my notes, which also represents a certain kind of underlying logical structure, since the sources I drew the unknown vocabulary from mostly discussed current events from around the world.
Giovanni è una persona smaccatamente attendista. Il suo attendismo è inviso ai suoi amici che non vogliono più fare da sponda per lui. Hanno cercato di ricompattarsi come gruppo, ma in fin dei conti, Giovanni pensa soltanto a se stesso. Una volta ha fatto costruire uno striscione sul quale era scritto “Giovanni prima di tutti gli altri”, proprio come quei leader populisti che vogliono mettere in avanti la priorità del proprio partito e di conseguenza del proprio paese. Gli amici di Giovanni hanno deciso di fare un piccolo smistamento e provare di toglierlo dal gruppo. Hanno deciso di andare al mare con lui, di metterlo su un gommone col maglioncino giallo che gli aveva confezionato la nonna, molto amata da lui, di dargli alcune zucchine grigliate per poter nutrirsi durante lo smarrimento meritato, ma lui ha capito subito il tranello in cui lo cacciavano ed ha intimato che non fosse coerente con la loro amicizia disinteressata e che non valeva. E poi sarebbe stata una soluzione contingente. Invece di andare al mare, Giovanni ha intrapreso di leggere un testo ostico, ad alta voce, e farne una carrellata per gli amici e mandarli a quel paese perché potessero scovare dalla sabbia della sua coscienza un tesoro facoltoso di cui lui era già prettamente assuefatto. E doveroso menzionare che si rifaceva ai suoi maestri più colti di scienze umane, compresa la psicologia e la letteratura. I suoi amici avevano pensato di proporgli così un capestro da cui non poteva più slegarsi, ma lui si dimostrò propositivo, al netto, dobbiamo aggiungere, di voler sempre ribaltare le carte in tavola. Non si sapeva più dove lo avesse celato quel gruzzolo di sapienza che aveva acquisito col tempo adagio adagio, e forse sarebbe stato il caso di fare appello ad un umarell per dare le istruzioni che occorrevano ai ragazzi. Per forza, si trovavano costretti ad edificare il loro baluardo di avanguardia contro la sapienza faticosa e preponderante di Giovanni. Di recente, lo ritenevano piuttosto istrionico e non del tutto canonico, anche se Giovanni gli esortava di appuntare senza barare tutto ciò che cercasse di trasmettere a loro. Perorava che, dopo tutto, la resilienza vuol dire piegarsi senza spezzarsi, e Giovanni se ne intendeva di queste cose. Puntava la distensione e la riscossa del gruppetto, anche se era chiaro che allargava le maglie della giustizia a suo compiacimento. Era un furbo che faceva finta di andare alla volta dei suoi addetti, ma forse non se ne accorgeva nemmeno della sua duplicità. Al netto del suo atteggiamento protagonista, li considerava i suoi soci più cari e voleva plasmare la loro amicizia, adibirla, senza però millantare, mi raccomando, in un ateneo. Auspicava la loro adesione, e d’acchito, non sembrava troppo esigente. Purtroppo agiva sempre a scapito degli altri e intasava le loro vie d'uscita. Li faceva intrappolare nel suo gorgo ai prezzi stracciati, che campeggiavano in bella mostra su un affiche con una dicitura sgradevole annunciando la degenza, semmai non gli si fosse dato retta. Brandendo il cartellone dal balcone che dava su un piccolo spiazzo fuori casa sua, invocava i suoi discepoli, cercando come sempre di accreditarsi con loro, intercalando nei suoi discorsi gustosi ed espansivi questioni di atteggiamenti sindacabili da parte dei suoi rivali. Siamo lì, diceva, tutto fiero di sé, dobbiamo accendere un faro su queste velleità raffazzonate di quel tizio che sempre ordisce ai danni della buona giustizia, di cui noi stessi abbiamo fatto le lodi, pensando di aver imbroccato l’argomento anche se tutti sospettavano che non fosse altro che una macchietta bislacca e se la ridevano sotto i baffi. Aveva un’ossessione morbosa col delitto dell’appropriazione indebita, cercava sempre aggravanti, ma siccome non voleva essere percepito nemmeno come un foriero di verità indiscutibili, era chiaro o no, che si trattasse di un fifone che incollava la propria immagine di sé, come uomo da bene, sulla realtà poco gradevole. Così, si era ritagliato un posticino sicuro in mezzo al caos quotidiano della sua città e badava sempre ad appropriarsi una quota di mercato che andava sempre incrementando, accolta in sottintese scoppiettate di riso. Seppure la sua casa si trovasse vicino alla Borsa e potesse essere informato da subito di potenziali flessioni, lasciava intendere di collocarsi dall’altra parte della barricata per far sì che fosse caldeggiato da quelli che curiosavano nei suoi affari. Spesso con i suoi soci intavolava discorsi a far tremare i polsi, scattenandosi delirante come se fosse in procinto di vedersi costretto a firmare un accordo svantaggioso. Che stramboide, diceva la gente. Altri ammiravano il suo impeto dilagante e dicevano sottovoce, ma che figo, ammazza! La calca si faceva sempre più fitta quando saliva in cattedra anche se non gli riusciva mai di fare altro che scalfire la superficie dell’argomento prescelto, conseguendo così di trovarsi conciato male davanti alla ciurma, che comunque si beveva le sue parole come vino sfuso. Si era messo in testa di debellare la reputazione dei suoi nemici, inalberandosi e squadernandosi, spalancando le braccia per far intravedere le sue ascelle sfrangiate e sbiadite dal tanto sudore che ci metteva per confutare le menzogne sulla sua persona, tra cui si potevano annoverare quelle sul afflato fatiscente dei rivali. Perorava spesso della sua impresa, che beninteso, non mirasse il tornaconto, bensì si impegnasse a non lasciare le cose andare in tilt, che si desse per spacciato lo sforzo quotidiano della gente per edificare quel tempio alla sapienza. Dal suo leggio che fungeva da posto investito dell’autorità suprema, quasi quasi si potrebbe dire che avesse raggiunto il prestigio del papa quando professava la carità e l’umiltà dal balcone della San Pietro, rivolgendosi alle masse nel suo discorso famosissimo dell’urbi et orbi. Insomma, Giovanni non cercava di tirare le somme di quanto fossero divenuti colti i suoi coetanei, bensì raccomandava loro un cambio di marcia per ottenere quella margine risicata in più, che avrebbe permesso loro di bollarsi gente di cultura. A questo proposito faceva aleggiare una nube florida di speranza che somigliava, se esaminata da vicino, ad una spocchiosa avvampata che sbaciucchiava in aria, che col passare del tempo, sarebbe poi divenuta una rimbambita bitorzoluta che nessuno avrebbe più adorato, ma che tuttora sbottava di scatto i suoi rincari e sbuffava di non essere riconosciuta a pieno titolo come la guida suprema per antonomasia. Non si sapeva a chi dovesse questa sua convinzione, quale mutuato nascondesse nel cassone della sua macchina con una marcia in più. Tuttavia era calzante la sua passione senza fronzoli, come lui credesse, che riusciva comunque a gasare la folla. Però come ve lo potete immaginare, si diceva intorno, che fosse un bacchettone, che avesse un pallino per la mistificazione, che esercitava tramite grossolani strafalcioni sui propri pargoli, costringendoli a farsi il mazzo. Siccome nessuno voleva che si riprendesse dallo smacco cagionato dalla loro andatura a rilento, si stipulava il conclamato divieto di impicciarsi platealmente nei affari del capo, che tra l’atro, si deve riconoscere una volta per tutto, portava i vestiti nuovi del re. In ultima istanza siamo costretti anche a dargli retta, tirando un grandissimo fiatone di sollievo, perché il suo indole non era del tutto congeniale al coinvolgimento in malefatta. Si vedeva chiaramente che aveva soltanto bisogno di convincersi che poteva portare a termine le sue illusioni, frutto di un farneticare sfizioso, per poi defilarsi con un’umiltà sentitissima e dare spago allo stuolo ferale che gli pareva dignitoso e bonario, quando invece si trattava di arraffoni disillusi, che ormai si potevano perfino vantarsi di essere colti come lui.